Quando nel 2016 abbiamo pensato ad una vera e propria rivoluzione in MYHO, Seletti è stata una scelta azzeccata. La nostra visione sul futuro di MYHO si sposava perfettamente con la filosofia di Stefano Seletti,una visione del design profondamente caratterizzata dalla passione, dalla creatività e dalla sperimentazione.
Per rendere merito a questo grande imprenditore italiano che tanto ci ispira, abbiamo deciso di pubblicare sul nostro blog una splendida intervista del 2015 pubblicata da Klat Magazine dalla giornalista Francesca Esposito.
Stefano Seletti, quarantaquattro anni, due figlie, una moglie, una famiglia, un’azienda. E poi, l’accento emiliano. Il patron di Seletti, che dai pentolini da latte e i battipanni venduti nei mercati rionali di Roma è passata agli scaffali del MoMA Design Store di New York, in realtà è l’imprenditore della porta accanto, sorridente e ben educato, coi piedi per terra e quell’accento in grado di rendere ancora meglio la genuinità, la densità e la bellezza della realtà Seletti. Insieme alla sorella Miria, Stefano è a capo di una delle aziende che hanno costruito la memoria quotidiana del design e dell’arredo in Italia. Due filiali ufficiali, Seletti Nord America e Seletti China, centinaia di negozi in tutto il mondo, fiere in ogni dove e un laboratorio creativo interno – il Selab – che sforna prodotti popolari con una forte connotazione artistica. Un universo infinito: i cartoni del latte e le bottiglie di Estetico Quotidiano, le tazze e i piatti di Hybrid, le lettere al neon di Vegaz e le scritte di Neon Art, le scatole e i deumidificatori Pantone, gli armadi in metallo di Wire, le lampade in carta riciclata di Egg of Columbus, le tovaglie di plastica con Toiletpaper, i portacandele spaziali di Cosmic Diner con Diesel. Una bella storia iniziata nel 1964 con il padre Romano, che fin da subito sviluppa rapporti d’affari in Cina, Thailandia, India e tutto l’Oriente, grazie anche al supporto di Luigi Goglio, esperto in relazioni commerciali internazionali. Oggi, con la seconda generazione al comando, l’azienda ha una nuova strategia e collabora con designer italiani e internazionali, con artisti, ex artisti o artisti in pensione – vedi Maurizio Cattelan per la collezione Toiletpaper. Eppure, nonostante il mercato globale, la mondanità e il successo, Seletti mantiene cuore e base operativa a Viadana, in provincia di Mantova, dove conta oltre settemila metri quadri di showroom a ridosso del Po. Sono luoghi ancora capaci di generare appartenenza: “Il nostro è un accento particolare, diverso dal mantovano, diverso dal reggiano, diverso dal parmigiano. Quanto al paesaggio, è quello della bassa padana, con i pioppeti, gli argini, la nebbia e tutto il resto”.
Dov’è casa per Stefano Seletti?
Viviamo a Viadana, sul grande fiume che separa due regioni: Lombardia da una parte, Emilia Romagna dall’altra. Non lontano c’è Brescello, il paese di Don Camillo e Peppone. È come se fossimo ovunque, ma in nessun luogo in particolare. Viadana è lì, un po’ in mezzo al nulla.
E quindi alla fine Viadana non esiste.
È un crocevia, da una parte sei in provincia di Mantova, dall’altra in provincia di Cremona. Attraversi il Po, a destra vai a Parma, a sinistra vai a Reggio. Insomma, siamo a cavallo di quattro province diverse.
E tu sei un semplice ragazzo di provincia?
La provincia è il mio rifugio, oltre che il luogo in cui sono nato. Il mio ufficio è a cinquanta metri da casa: un posto estremamente innovativo, fresco di ristrutturazione, mentre la casa è una tipica abitazione di campagna rustica, con una poetica pianta di vite davanti al portone. È un posto in cui riesco sempre a staccare.
E a lavorare?
Come lavori in provincia non lavori da nessuna parte. Vivo in una realtà familiare che mi piacerebbe preservare; ogni tanto passa mio padre, a volte entra mia madre. Diciamo che è l’unico posto che mi permette di tenere i piedi per terra. Qui, il brand Seletti lo conoscono davvero in pochi, non sei famoso.
Dov’e più famoso Seletti?
Milano è la città dove vendiamo di più al mondo, ed è la prima che ha riconosciuto il nostro brand. È una metropoli davvero interessante e ci vengo sempre molto volentieri, c’è sempre qualcosa di diverso da fare. Arrivo con la mia bella valigia e dormo all’Ostello Bello.
Potresti concederti alberghi stellati, ma preferisci un ostello. Perché?
A Milano è il mio posto preferito. Mi piace tornare a casa la sera e trovare giovani che bevono un bicchiere educatamente, bella gente da ogni parte del globo che fa colazione la mattina. Credo che sia uno degli ambienti più cosmopoliti di Milano, ci trovi tutto il resto del mondo.
Parliamo allora di tutto il resto del mondo. Partiamo dalla Cina, da dove voi Seletti, come dei novelli Marco Polo, avete iniziato la vostra avventura.
La mia prima volta è stata nel 1987: una Cina completamente diversa da quella di oggi. Sono partito che avevo 17 anni e oggi ne ho 44, ma quel primo viaggio mi si è impresso nella memoria: ricordo di aver tirato giù io la valigia dall’aereo e che l’aeroporto era grande come questa stanza, venti metri quadrati. Mettevano un cartello “Arrivi”’ quando arrivava un aereo e lo cambiavano in “Partenze” quando ne decollava uno. Avrò contato in tutto cinquanta macchine, poi tutte quelle biciclette stracariche di merce, la gente che mangiava a qualsiasi ora del giorno e della notte, seduta appollaiata. Infine, la bruttura e il grigiore delle città cinesi di provincia, con quelle centrali a carbone che oscuravano il cielo.
Cina ieri e oggi, trova le differenze.
Agli inizi la produzione era basata quasi esclusivamente su arts & crafts, sul fatto a mano. Oggi è diventata più industriale e ovviamente meno romantica. Inizialmente mio padre importava le tazze di latta, le tovaglie di plastica, i cestini portapenne di bambù, i sottopentola di paglia che tutti avevano in casa, scommetto anche tua madre. Mio padre li importava e li vendeva nei mercati. In pratica, la distribuzione era questa: c’era l’importatore, il grossista e poi il prodotto arrivava al pubblico e veniva venduto nei mercati rionali di Roma, Napoli, Torino.
Poi a un certo punto arrivi tu.
Quando sono entrato in azienda, a diciassette anni, erano i tempi della grande distribuzione, c’era il primo Auchan a Torino, quindi la prima Ipercoop a Bologna. Siamo stati i primi a mettere i codice a barre su questi prodotti e siamo stati i primi a dare un servizio legato al packaging del prodotto.
Come ci si sentiva ad avere diciassette anni e a subentrare in azienda?
Mio padre è stato molto bravo, mi ha sempre fatto prendere decisioni senza caricarmi di troppe responsabilità, e senza farmi pesare gli errori che sicuramente avrò fatto nella scelta dei prodotti, nella concezione del packaging. In sostanza, mi ha sempre lasciato fare, guidandomi.
Sì, ma di solito uno a quell’età va in manifestazione. Tu invece eri in azienda con papà.
Sì, ma la mia è una figura imprenditoriale atipica. Siamo di origini umili, la mia è una famiglia popolare.
Ma le facevi le manifestazioni?
A Viadana le manifestazioni non arrivavano, era tutta campagna. Ricordo solo uno sciopero perché volevano costruire una centrale nucleare. Io però a diciassette anni giravo già con mio padre per venti, venticinque giorni di fila, più una decina che ci tenevamo liberi per conoscere i luoghi. Affittavo una bicicletta o un motorino e guardavo il mondo. Mi ricordo il primo viaggio a Mumbai con atterraggio alle due di notte. Sono sceso dall’aereo e mi sono trovato di fronte a una situazione allucinante: tantissima gente, nugoli di bambini che non sapevo se fossero vivi o morti, mucche in aeroporto, e poi odori e colori di ogni tipo. Sono rimasto talmente scioccato che mi sono messo a piangere.
Troppi contrasti?
Venivo da un paese dove dominava il grigio della nebbia, dell’autunno. Non ero mai uscito dall’Europa, e improvvisamente mi trovavo in India, Cina, Thailandia, Vietnam. Sono viaggi di enorme impatto, che ti cambiano da così a così.
Se potessi cambiare qualcosa del modo in cui sei cresciuto, cosa cambieresti?
Avrei voluto imparare meglio l’inglese. E mi sono perso tante cose che facevano i miei amici. Per esempio, non ho mai fatto una vacanza studio.
Hai fatto qualcosa di meglio di un’estate in una famiglia del Galles.
Sì, certo. Ma i miei erano viaggi di lavoro. Non dimenticare che mio padre ha una formazione decisamente umile, ha fatto la terza elementare, proviene da una famiglia di otto figli. Mia nonna è morta dando alla luce il più piccolo, e mio nonno faceva l’infermiere all’ospedale dei matti. Per intenderci, mio padre era uno che mangiava il pollo una volta all’anno, ha iniziato a lavorare a otto anni.
C’è una qualità che ti manca?
Mi piacerebbe avere più manualità, imparare qualche abilità costruttiva, magari diventare falegname oppure essere in grado di fare un collegamento elettrico. Acquisire antiche conoscenze andate perdute.
Un racconto di Asimov di oltre cinquant’anni fa parla del grande blackout di una civiltà elettronica in cui l’unico al mondo che ancora ricorda le tabelline viene preso dal Pentagono per vincere la guerra. Nessuno, senza calcolatori, oggi è più in grado di fare 6×6. Una strana profezia: siamo più tecnologici, ma abbiamo perso antichi saperi. Anche se sembra esserci una controtendenza.
Credo che il mondo del lavoro stia cambiando, oggi si cercano più un buon falegname o un ottimo sarto, piuttosto che architetti e ingegneri.
Che scuola hai frequentato?
Ragioneria, Istituto Tecnico Ettore Sanfelice, ovvero l’unica scuola superiore di Viadana. Ma odiavo la matematica, mi piacevano solo le materie umanistiche.
Quindi niente tabelline nemmeno tu. 6×6?
(Ride) A dire il vero, non mi piaceva nemmeno la grammatica.
Vorrà dire che ti risparmierò la sfilza di domande sulla grammatica italiana. Andiamo direttamente a quelle politiche?
No, non mi sono mai occupato di politica. Ammetto di non avere mai fatto nulla per il mio Paese, per la mia comunità. Forse sono stato egoista, o forse non sono stato un grande attivista, ma – e guarda che non voglio salvarmi in corner – cerco di esserlo oggi con quello che faccio: design democratico, prezzi accessibili.
L’importante è fare attività politica, non averla fatta, diceva qualcuno. E arriviamo alla filosofia Seletti.
La filosofia è perfettamente riassunta dal concetto Toiletpaper. Maurizio Cattelan, che ha fatto pezzi da un milione di euro, ora fa il contrario: un milione di pezzi da un euro. Anche in questo sentiamo di applicare una logica prettamente contemporanea. Quello che stiamo facendo in termini commerciali, non ho la pretesa di definirli politici, mi sembra davvero una delle applicazioni di design più lungimiranti che ci siano.
Seletti coltiva anche un certo rapporto con l’arte, oltre che con il design.
Seletti non è un’azienda di design. Cioè, mettere una grafica su un pentolino non è design.
Viva l’onestà. Allora che cos’è?
È una realtà con una memoria lunghissima, non solo mia, dal momento che negli anni Settanta mio padre importava oggetti che tutti ricordano. Noi della seconda generazione abbiamo promosso delle idee molto contemporanee, innovative, estrapolate da due artisti meravigliosi, Pierpaolo Ferrari e Maurizio Cattelan, firmate da un brand cool e vendute nei negozi più importanti del mondo: da Colette a Parigi al Moma Design Store di New York, passando per 10 Corso Como a Milano. Insomma, siamo fighi.
Come si è manifestata l’epifania di Cattelan?
(Ride) Ero con i miei amici in moto, Victoria Cabello mi chiama e mi dice che è a Parma per il concerto di Morgan. Poi mi dice: “Sono con il mio ragazzo, Maurizio Cattelan”. Ma chi l’aveva mai sentito Maurizio Cattelan? A Viadana? Quindi prendo la moto e vado a casa, e la prima scena che mi si presenta davanti agli occhi, aprendo il cancello, sono le mie due bambine che scappano e Maurizio sulla bicicletta che le insegue.
Kubrick alla rovescia, insomma. Poi come avete iniziato a collaborare?
Per un periodo le nostre strade non si sono incontrate veramente, ci incrociavamo e basta. Però si vedeva che era interessato, faceva un sacco di domande. Poi abbiamo cominciato a chiacchierare, pensare insieme, progettare, ed è nato Seletti wears Toiletpaper. Anche con Diesel è andata più o meno così, ho incontrato il direttore creativo Andrea Rosso quattro anni prima di cominciare a lavorarci insieme.
Oltre a Diesel e a Toiletpaper, ora c’è tutta la serie legata all’illuminazione.
È il settore più trainante in termini di fatturato. Pensa che i bestseller Seletti sono le lettere al neon, proprio perché non si tratta solo di decorazione, ma anche di illuminazione. Come per Estetico Quotidiano, che potevi prendere con i punti dell’Esselunga. Abbiamo creato una rivoluzione, mettendo la “r” tra parentesi: (r)evolution. Da rivoluzione a evoluzione: credo proprio sia questa la strada da percorrere.
Progetti futuri?
Parlare del futuro è la cosa che mi piace di più. Non mi vedrai mai guardare le foto di quand’ero ragazzino.
Ma se abbiamo appena finito di parlare del pentolino da latte?
Ma con i prodotti è diverso, ho un rapporto con il passato contemporaneo che diventa reinterpretazione. Altrimenti non mi guardo mai indietro.
Allora ti faccio una domanda. Anzi forse non te la faccio, è un po’ di cattivo gusto, un po’ kitsch, un po’ Cattelan, un po’ Toiletpaper.
Vai.
Vado. Come immagini la tua morte?
Come una perdita per la società.
Dico nel concreto.
Mi vedo morso da un serpente velenoso. Non mi spaventa l’idea di morte, perché della mia vita sono soddisfatto, non ho grandi velleità, non ho necessità di viaggiare in business class, o cambiare la macchina ogni anno, tantomeno avere più di quello che ho.
Tra l’avere e l’essere?
Tutte le cose che ho le ho sempre reinvestite in azienda, per fare progetti che mi proiettassero in una logica futura. Come per esempio l’Experimental Shop che abbiamo fatto qui a Milano: una sfida che guarda avanti, non un negozio temporary.
Di te dicono che sei il Fornasetti del nuovo millennio.
Barnaba l’ho visto ieri sera, è un grande complimento, ho preso spunto dal suo stile e dalla sua eleganza. Anche da Maurizio. Ho rubato tanto a tutti, ho copiato in passato e ora sono copiato a mia volta.
Vabbè, lo diceva anche Confucio. Esistono tre modi per imparare la saggezza, il più facile è l’imitazione.
Anche in Giappone dopo non so quanti anni molti edifici vengono distrutti e ricostruiti esattamente come prima. La vera arte sta nel rifarli esattamente identici, un po’ come la discoteca Plastic.
Hai girato e giri molto, c’è un posto nel mondo dove ti piacerebbe vivere? Magari al Nord.
Non invidio i Paesi del Nord Europa, mi piace il design scandinavo, ma lo trovo un po’ noioso. Troppo perfetto, troppo lineare, senza errori. In questo momento, sto maturando un elogio dell’imperfezione.
Maestri?
Ho pescato e prendo spunti quotidianamente da tutti. Avere un maestro significherebbe aver seguito i passi di una persona in modo approfondito, e non avendo una cultura del design approfondita, non saprei. Prendo ispirazione dalle mie bambine, di sette e dieci anni, e dalle mie nipoti. Le osservo e mi danno suggestioni. È questa la ricerca sul futuro che mi piace fare. Immaginare come vivranno loro nel futuro.
E contaminazioni cinematografiche, visto che hai in catalogo prodotti come Inception o Memento.
Merito dei designer, non ho una grande cultura cinematografica, però ti racconto questa. A Bahia, dove ho casa e da dove sono appena tornato, abita anche il regista Héctor Babenco. Di sera facciamo il cinema in spiaggia. Immagina: le stelle, il rumore del mare, il telo e il proiettore, una cosa da urlo. Una volta Héctor ha portato quello che, secondo lui, vincerà il premio Oscar al miglior film straniero: l’argentino Storie pazzesche. Poi ci siamo messi a vedere anche Birdman di Iñárritu. Fantastico.
Ok, adesso fuori i progetti per il Salone del Mobile.
Fuochi d’artificio, assolutamente. Saremo sempre in piazza Affari dove stiamo preparando cose davvero interessanti per Souvenir Milano 2015.
Ma così non mi hai detto niente.
Ti do un’anticipazione, stiamo preparando un progetto con Studio Job, duo belga-olandese che mi è sempre piaciuto. Fabio Novembre li conosce bene e mi ha dato una mano a contattarli. Ero un po’ titubante perché non pensavo rispondessero a un brand come Seletti. Dopo dieci minuti di orologio, mi hanno chiamato: “Si fa”. Per me è il coronamento di un sogno: sai quante sportellate in faccia abbiamo preso? Seletti, una volta, non era mai abbastanza.